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CANOSA – Intervista a L. Di Gioia: “Il volontariato non basta”, studio sul futuro della FAC come impresa culturale

5 Aprile, 2019 | scritto da Angela Ciciriello
CANOSA – Intervista a L. Di Gioia: “Il volontariato non basta”, studio sul futuro della FAC come impresa culturale
Attualità
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Luigi Di Gioia, Amministratore Unico della cooperativa Dromos.it, nonché guida turistica abilitata e attiva sul territorio da diversi anni, espone la sua tesi di laurea in “Gestione e Organizzazione delle aziende Culturali” presso l’Università degli Studi di Macerata-Corso di laurea magistrale in “Management dei beni culturali”, denominata La Fondazione Archeologica Canosina (FAC) e la valorizzazione del patrimonio culturale di Canosa di Puglia. Dall’analisi del modello di gestione alle prospettive di sviluppo.

Lo abbiamo intervistato per capire meglio e approfondire gli argomenti trattati nella sua tesi.

Innanzitutto, poichè non tutti i nostri lettori conoscono la Fondazione Archeologica Canosina, ci dica come è nata e di cosa si occupa.
“La Fondazione Archeologica Canosina (FAC) è l’ente che attualmente gestisce il patrimonio archeologico del Comune di Canosa di Puglia. È nata nel 1993, grazie all’iniziativa di un gruppo di cittadini sensibili al recupero delle proprie origini storiche, archeologiche, culturali, scossi dalla mostra ‘Principi Imperatori e Vescovi. Duemila anni di storia a Canosa’, realizzata a Bari l’anno precedente, con pregevolissimi reperti (oltre 1500 provenienti dai più prestigiosi musei italiani ed esteri) rinvenuti negli imponenti ipogei e nei numerosissimi scavi archeologici canosini.La Fondazione è pertanto l’espressione di una esigenza profondamente sentita da un gruppo eterogeneo di cittadini per i quali era doveroso ed inqualificabile che il patrimonio archeologico del territorio canosino non fosse adeguatamente tutelato e valorizzato. La FAC, con il coinvolgimento della cittadinanza, ha instaurato così unfelice rapporto di collaborazione con la Soprintendenza e gli Enti locali, favorendo un inedito connubio, unico per il Sud Italia in quei tempi, tra pubblico e privato nella creazione e gestione di uno spazio museale espositivo, attivo e dinamico presso Palazzo Sinesi che, dopo anni di mostre ed esposizioni temporanee, oggi è divenuto la sede del Museo Archeologico Nazionale di Canosa. Con la stipula nel 2007 del ‘Contratto di Servizio’ con il Comune e nel 2009 del ‘Protocollo d’intesa’ con il Ministero dei Beni Culturali, l’impegno organizzativo, economico e finanziario della FAC si è concentrato, oggigiorno, sulla gestione e manutenzione ordinaria del patrimonio archeologico ad essa affidato: un’enorme ‘eredità’, prima in stato di abbandono, in una città che fino a tempi recenti ha considerato l’archeologia un fastidio e un intralcio al proprio sviluppo”.

Chi sono i soci della FAC?
“Innanzitutto dobbiamo dire che la FAC è una ‘fondazione di partecipazione’, ovvero un soggetto giuridico senza scopo di lucro al quale possono partecipare più soggetti: Stato, Regioni, Provincie e Città metropolitane, Comuni, enti pubblici e anche privati, semplici cittadini. I soci della FAC sono attualmente – oltre ad un elevato numero di semplici cittadini – il Comune di Canosa, il Comune di Minervino Murge, la Provincia BAT e la Banca di Credito Cooperativo di Loconia-Canosa. Tutti concorrono alla governance della Fondazione, con l’Assemblea dei soci e attraverso la nomina e/o l’elezione dei componenti nei suoi organi statutari: il CdA e il Presidente, il Collegio dei revisori dei conti e quello dei probiviri, il Comitato scientifico, ecc.”.

Si può oggi affermare che Canosa ha mutato il suo rapporto con l’archeologia e il patrimonio culturale, soprattutto grazie all’impegno del volontariato. Ma è sufficiente?
“Il volontariato ha rappresentato, e rappresenta, certamente una manna per il mondo del patrimonio culturale, col proprio impegno costante e l’innata passione sociale. Non vi è alcun dubbio circa il miglioramento apportato al sistema dei beni culturali di Canosa dai volontari in genere e dalla FAC in particolare. Ma non basta, non può bastare. Sono diversi, pertanto, i suggerimenti che scaturiscono dall’analisi del caso, i tanti strumenti da adottare, ma uno è imprescindibile: la FAC, pur non perseguendo profitti e utili, è da considerare a tutti gli effetti un’impresa; come tale non può essere indifferente alla redditività, ovvero alla capacità di ottenere le risorse necessarie allo svolgimento della propria attività”.

Come può farlo?
Dovrebbe adottare un modello di gestione tipicamente aziendale, scegliendo una struttura organizzativa di tipo funzionale, fortemente orientata ai processi e alla responsabilizzazione di tutto il personale, sia esso ancora in parte volontario e impegnato a titolo gratuito, sia esso necessariamente dipendente, professionale e adeguatamente retribuito. Occorrono ulteriori risorse pubbliche e private, servizi efficienti ed efficaci politiche di marketing. Una FAC che deve essere in grado, insomma, di generare un sistema gestionale virtuoso del patrimonio culturale. Solo così si potrà meglio indirizzare le energie, l’entusiasmo, le capacità e le professionalità della nostra comunità locale verso la definizione di un modello di governance più efficace ed efficiente.

Con quali risorse?
“Innanzitutto lo Stato e gli enti pubblici locali non devono smettere di contribuire con le proprie risorse alla tutela in primis e, conseguentemente, alla valorizzazione del patrimonio culturale, altrimenti vien meno il dettato costituzionale (art. 9). Poi, occorre gestire al meglio, con formule innovative, questa ‘eredità’ straordinaria e complessa. Da più parti è stato evidenziato che la gestione non può essere più solo ed esclusivamente in mano allo Stato e alle strutture pubbliche, pertanto il dibattito sulle modalità di gestione dei beni culturali fa emergere la necessità di un’alleanza tra pubblico e privato, tra istituzioni e società civile, proprio come è avvenuto con la costituzione della FAC. La gestione ‘dal basso’ operata dalla FAC, con il coinvolgimento costante dei cittadini e delle istituzioni (Comune, Provincia, Ministero, etc.), nelle iniziative promosse ma ancor più nella stessa attiva partecipazione alla vita associativa (ogni cittadino può iscriversi alla fondazione e concorrere alla formazione della sua governance, al pari delle istituzioni), può ulteriormente fare dell’eredità culturale un elemento vivo e un fattore di coesione e di crescita della comunità locale, con il conseguente effetto di una diffusa percezione sociale del valore del proprio patrimonio culturale, la cui conservazione sarebbe perciò sempre più oggetto di collettive cure spontanee, assai più efficaci di ogni misura di tutela affidata alla forza delle leggi e delle sanzioni. La fondazione, inoltre, può e deve convogliare ulteriori risorse private, può e deve svolgere attività imprenditoriale ed economica volta a creare redditività e ricavi reinvestibili nelle attività di valorizzazione”.

Quindi il modello della ‘fondazione di partecipazione’ può essere una soluzione?
“Certo. Si tratta di un modello sperimentato e diffuso in tutta la nostra penisola: guardiamo, tra i tanti esempi, ai casi interessanti e positivi di Aquileia, Ravenna o Torino. Nel settore dei beni culturali la ‘fondazione di partecipazione’ consente di raggiungere, nell’erogazione dei servizi, livelli qualitativi e quantitativi consentiti solo attraverso l’integrazione del settore pubblico col privato, data la costante necessità di contenere la spesa pubblica. Si può considerare come un interessante tentativo di costruire un modello italiano di gestione dei beni culturali, soprattutto locali, che da una parte eviti processi di privatizzazione o di alienazione del nostro patrimonio, ma dall’altra consenta alla comunità, intesa nell’accezione più larga del termine, di partecipare a questo enorme progetto di rivitalizzazione del nostro patrimonio, ad una sua gestione ‘dal basso’, condivisa e sostenibile”.

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