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Storie di “Cosa Loro”: le donne della mafia di Capitanata

15 Maggio, 2019 | scritto da Alessandra Zaccagni
Storie di “Cosa Loro”: le donne della mafia di Capitanata
Cronaca
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Enzo Miucci, soprannominato “u criatur”, è stato arrestato il 10 maggio scorso da parte dei Carabinieri di Monte Sant’Angelo (Foggia) per violazione delle misure cautelari imposte dal regime di sorveglianza speciale a cui il pregiudicato 36enne era sottoposto.

Cugino dei tre fratelli Li Bergolis Armando, Franco e Matteo, tutti attualmente detenuti, e figlio di Antonio Miucci, vittima della sanguinosa guerra che dal 1978 viene condotta dai clan Li Bergolis e Primosa-Alfieri: dopo essere sopravvissuto ad un tentativo di omicidio il 18 agosto 1992, Antonio Miucci viene massacrato il 14 agosto 1993 a colpi di 357 magnum nel centro di Monte Sant’Angelo.

Poche ore dopo l’arresto di Enzo Miucci, ritenuto dagli investigatori il boss reggente del clan Li Bergolis, sorge spontanea una riflessione su un fenomeno crudele ed a cui i media e gli stakeholders da sempre prestano poca attenzione: la mafia di Capitanata.

Per anni i media hanno considerato il fenomeno mafioso garganico come una mera faida tra famiglie che si contendevano un fazzoletto di terra, che stabilivano a colpi di arma da fuoco il limite invalicabile oltre il quale il gregge non sarebbe dovuto sconfinare.

Chiamando faida la lunga guerra condotta dai Li Bergolis e dagli Alfieri-Primosa, nel gargano, e dai clan Moretti-Francavilla-Sinesi-Trisciuoglio nel foggiano, i media hanno contribuito alla sottovalutazione del fenomeno, accrescendo una percezione distorta ed a tratti superficiale dell’intera realtà della mafia di Capitanata.

È grazie al contributo del dott. Domenico Seccia, attuale Procuratore della Repubblica a Lucera e membro della Direzione Distrettuale Antimafia dal 2003, che la criminalità organizzata dell’area foggiana è stata ascritta nel registro delle mafie ricevendo un riconoscimento linguistico, pubblico e mediale.

Soltanto il 7 marzo 2009 la Corte d’Assise di Foggia sancirà irrevocabilmente la matrice mafiosa della mafia di Capitanata.

Una delle date cruciali per indagare sulle radici del fenomeno mafioso nel Nord della Puglia è il 2 dicembre 2003: in questa giornata, presso una masseria ubicata nei pressi di San Giovanni Rotondo si è svolto uno dei più importanti summit di mafia con lo scopo di chiarire la dinamica dell’omicidio di Michele Santoro, fedelissimo della famiglia Li Bergolis e braccio destro del Franco Li Bergolis, avvenuto il 25 settembre dello stesso anno nel sipontino.

Grazie a video girati dagli investigatori della DDA di Bari l’intero apparato della giustizia italiana, l’intera popolazione del territorio di Capitanata e l’Italia tutta saranno costretti ad ammettere che la mafia garganica esiste, è cosa tangibile ed inequivocabilmente vera.

Era necessario vincere la credenza che la mafia garganica fosse una magia, popolata dal potente di turno che impone il suo comando, la sua forza e la sua violenza.

La criminalità garganica diventa mafia, quando al pari delle altre mafie si organizza, quando il cittadino perde i suoi diritti, quando genera sudditi e vittime

Queste le parole dell’attuale Procuratore della Repubblica di Lucera Domenico Seccia, nato a Barletta, classe 1959, nel suo libro “La mafia innominabile”, in cui ripercorre le tappe fondamentali di quella guerra tra clan che per troppi anni è stata definita semplice “faida familistica”.

Una criminalità organizzata, che forma uno Stato dentro lo Stato, che conduce indagini in autonomia, emana sentenze e le esegue nell’immediato. La mafia ha un proprio codice di condotta, talvolta concordato anche tra clan rivali.

L’11 luglio 2001 la Corte di Assise di Appello di Bari ritiene che la capacità associativa dei gruppi familiari protagonisti della vita mafiosa di Capitanata sia da ritenersi nulla, assolvendo tutti gli imputati.

L’assoluzione non comporterà che il rinforzarsi delle rivalità tra clan, battezzando nuove figure come boss, rendendo la mafia di Capitanata capace di rigenerarsi e di produrre continuamente nuove risorse, nuove leve da coinvolgere nella guerra per il controllo dei traffici di droga, degli appalti, del territorio.

A nulla allora sembra siano servite le testimonianze rilasciate da Antonia Alfieri e Michele Libergolis, affiliato del clan Primosa-Alfieri ormai decimato all’epoca delle testimonianze.

La figura di Antonia Alfieri funge da collante tra il mondo della mafia garganica, tra la “cosa loro” e il mondo circostante, che nulla finge di sapere e capire a proposito di omicidi consumati nel centro cittadino, in orari imprevedibili.

Nel momento in cui Antonia Alfieri decide di collaborare con la giustizia ella è ben consapevole del rischio a cui sta sottoponendo sé stessa e la propria famiglia, o quel che ne rimane.

La figura delle donne nell’ambito della criminalità organizzata è quella di angeli del focolare che non possono, non devono avere altra occupazione che non sia badare alle faccende domestiche, fare attenzione alla vita dei propri figli, indossare un velo scuro e piangere parenti, figli, mariti durante i loro funerali.

Eppure, la Alfieri non è una pentita di mafia, ma una donna forte, più forte della recrudescenza nella quale è stata costretta a vivere, una donna che non teme più il puntare il dito nei confronti di coloro i quali si sono macchiati mani e coscienze di sangue su cui talvolta ricadeva l’unica, la sola colpa di essere sangue legato a nemici degli attentatori.

La parentela, il legame di sangue diventa un peccato dal quale non ci si può redimere, per i clan Li Bergolis e Primosa-Alfieri.

È tuttavia la figura di un’altra donna a catturare l’attenzione durante il periodo più cruento della guerra di mafia nel foggiano: Anna Rita Moretti.

Figlia del boss Rocco Moretti detenuto dal 1989 al 2016, quando è stato sottoposto al regime di sorveglianza speciale per poi essere ricondotto in carcere nell’ottobre 2017 per estorsioni.

La figura del Rocco Moretti, boss indiscusso della “Società foggiana”, ha conosciuto il momento dell’iniziazione intorno alle fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80: un momento storico cruciale per la diffusione della Nuova Camorra pugliese per mano di Raffaele Cutolo e delle mire espansionistiche della sua Nuova Camorra Organizzata.

A confermare queste ricostruzioni è la testimonianza fornita da Antonio Catalano durante l’interrogatorio che seguiva il suo pentimento: “Rocco Moretti è il padre storico della mafia foggiana. La spartenza lo coinvolge per il peso che ha avuto all’interno della Società.

Ribellatosi ai Laviano, negli anni 90, che intendevano imporre la loro Camorra nel foggiano, avventuratosi in una guerra contro i clan vincenti dei Sinesi, dei Francavilla e dei Trisciuoglio, Rocco Moretti ha continuato ad esercitare la sua egemonia anche dalle mura del carcere.

Sua figlia, in una conversazione intercettata nel carcere di Foggia nell’agosto del 2007, viene registrata affermando “Se tu mi avessi fatto maschio a me era meglio…. Non faccio niente perché sono femmina. Ti faccio portare l’onore. Mi facevi maschio a me….”

Anna Rita Moretti verrà poi arrestata per traffico di sostanze stupefacenti, venendo colta in flagranza di reato durante il trasporto di 300 chili di droga scortati da un’altra autovettura.

La Moretti prende sulle proprie spalle il peso, l’onere e l’onore di appartenere al clan Moretti, scortando droga, facendo mantenere in vita le attività imprenditoriali di famiglia, manifestando una incommensurabile fierezza familiare.

Le due donne sino figure strettamente connesse alla mafia, alle radici dello Stato parallelo alla struttura dello Stato italiano, che percorrono il sentiero della vita testa alta con la loro volontà di perseguire fini che, seppur diversi tra loro, si dimostrano molto più forti e imponenti di quelli imposti dai loro padri, dai mariti, dai figli.

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